Deportati. Ventuno secoli le legioni romane costrinsero ben 50.000 Liguri a lasciare le proprie terre e ad insediarsi in un’area del Mezzogiorno già occupata dai Sanniti. Questi, infatti, avendo resistito alla Caput mundi oltre il lecito, erano stati puniti perdendo le proprie terre. Breve storia di una diaspora. Per saperne di più, pubblichiamo la prolusione del prof. Mario De Agostini al Convegno sui “Ligures Baebiani” organizzato dalla Sezione di Benevento dell’Archeoclub d’Italia, presieduta dal prof. Michele Benvenuto.
Vi narro una pagina della storia dei Liguri Apuani: sebbene essa sia abbastanza noto, essendo stata narrata da Tito Livio nel libro XL° dei suoi “Annali”, non sarà superfluo rievocarla. Narra dunque lo storico che nell’anno 180 a.C. avvenne uno dei tanti episodi della secolare lotta tra i Romani invasori e le tribù liguri che difendevano se stesse ed i loro territori dalla penetrazione dei potenti avversari. I Romani, dopo una serie di conflitti il cui esito non era stato sempre a loro favorevole, avevano deciso di domare una volta per sempre le due tribù liguri più agguerrite e pericolose, gli Inguani e gli Apuani. I primi, battuti da Paolo Emilio nel 181, erano stati costretti a chiedere la “Pax perpetua“. Ridotti questi a mal partito, solo gli Apuani erano rimasti a dar sospetto di cospirazione per insorgere e per rinnovare le ostilità momentaneamente sopite dopo la batosta subita dagli Inguani. Dunque contro di loro (che pure al presente non davano alcun segno di voler fare ciò che i loro nemici temevano) fu preparato dai Romani un piano che mirava al loro annientamento. In attuazione di questo furono inviati nel territorio dei liguri Apuani dell’anno 180 i due consoli dell’anno precedente, Publio Cornelio Cetego e Marco Bebio Tanfilo a capo di un esercito consistente in due legioni romane e in un contingente di 1500 fanti e di 800 cavalieri di nome latino: una forza davvero imponente, necessaria per altro a servire come deterrente contro il difficile avversario per ridurlo, senza ricorrere allo scontro armato, a subire il volere degli invasori; o, nel caso di un conflitto, a schiacciare la resistenza nemica.
Gli Apuani, che prima dell’arrivo dei Romani non sospettavano nulla ed erano stati quindi colti completamente impreparati a fronteggiare l’attacco, credendo in tali condizioni di poter prevenire i rigori del nemico ed essendo del tutto ignoranti dei suoi scopi, offrirono prontamente la resa. I capi romani però non si limitarono ad accettarla, ma proposero al Senato di porre in atto un espediente che, senza ulteriori stermini o spargimento di sangue, avrebbe risolto per sempre, o almeno per lungo tempo, il problema della pace nelle terre abitate dai Liguri Apuani: ritrarre, cioè, se non tutti, almeno quanti più si potesse dai loro domicili montani ed inaccessibili ed obbligarli a trasferirsi, sotto scorta, lungi dalle loro dimore in luoghi che il Senato avrebbe dovuto designare, donde non fosse facile né addirittura sperabile far ritorno. Ora, tra i Sanniti, il popolo romano possedeva un territorio che anticamente era appartenuto ai Taurasini (lo aveva conquistato Scipione Barbato nel 298); si chiamava “Campi Taurasini” e come sembra assodato si estendeva dai pressi dell’odierno San Bartolomeo in Galdo fino all’odierno Circello, nel Sannio beneventano; non era abitato se non forse, abusivamente, essendo “ager publicus” – da cui erano stati cacciati i primitivi occupanti. Ebbene, in quella lontana regione fu decretato dal Senato che fossero trasferiti i Liguri Apuani. In conseguenza di ciò tutti coloro che avevano offerto la resa ricevettero l’ordine di venir giù dai loro monti con le mogli e con i figli e con tutte le masserizie; ad essi non restò che adattarsi alle alla imposizione ed ubbidire a scanso di peggiori guai. Riuniti tutti, si trovarono sul piede di trasferimento 40.000 uomini liberi con le donne e con i fanciulli: era una deportazione in piena regola (pratica, del resto, non nuova per vincitori che volevano distruggere le forze e le risorse dei vinti ). Così dopo un arduo, lungo, dubbioso viaggio per via terra, i Liguri deportati giunsero nelle contrade sannitiche, cioè nei Campi Taurasini. I Romani, peraltro, non potevano pensare di aver chiuso la partita con gli Apuani dopo questo episodio. Dal momento che rimanevano ancora forti gruppi ed altre tribù ed erano tuttavia sul piede di guerra, in quello stesso anno 180 i due consoli in carica, Aulo Postumio Albino Lusco e Quinto Fluvio Flacco, mossero in forze contro di loro da diverse direzioni.
Quanti rimanevano degli Apuani furono costretti alla resa. Anche nei loro confronti fu adottato lo stesso provvedimento che era stato posto in opera contro i primi deportati nel Sannio: essi furono trasferiti (per mare, questa volta) prima a Napoli e poi nell’agro sannitico. Erano circa 7000 e “ager his inter populares datus est” cioè ebbero sede tra i loro predecessori. Dunque intorno alla fine dell’anno 180 si trovarono in terra sannitica 47.000 Liguri Apuani cum uxoribus et liberis (ciò potrebbe dire che erano molti di più) deportati da una terra lontana, senza speranza di ritorno, obbligati a sistemarsi nel nuovo territorio, a fare i conti con la realtà locale, a trovare nuovi fonti di sussistenza, aiutati in principio dai sussidi erogati dello Stato romano, poi, com’è da credere, completamente lasciati a se stessi. Non furono collocati tutti nei medesimi luoghi: non si sa per quali ragioni e con quali criteri, furono infatti formati da essi due grandi gruppi che abitarono due plaghe distinte e separate tra loro e che furono chiamati rispettivamente Corneliani e Bebiani dal nome dei proconsoli che avevano voluto e guidato il primo grande esodo.
Plinio il Vecchio, nel I secolo d.C., scrisse di “Ligures qui cognominantur Corneliani et qui Baebiani“; inoltre nel catalogo “De Colonis” di Giulio Frontino, contemporaneo di Plinio, si legge “Ligureis Baebianus et Cornelianus” cioè “le colonie di Bebiano e Corneliano Liguri”. In sostanza, questi due scrittori dichiararono che nella loro epoca erano conosciuti Liguri Bebiani e Liguri Corneliani abitanti in due colonie che avevano ciascuna un sito ed un nome ben distinti. Oltre queste due testimonianze ci sono le iscrizioni: una, letta in territorio di Allifae, in cui viene nominato un Sesto Minio Silvano “curator Ligurum Cornelianorum”; altre, scoperte nel territorio di Macchia di Circello e in altri limitrofi in cui compaiono citati solo e specificatamente Liguri Bebiani senza alcun accenno ai Corneliani. Si può obiettare che Livio, che dà la testimonianza fondamentale per conoscere questa vicenda, non parla espressamente di Bebiani e di Corneliani e che non esiste alcuna altra prova che Liguri presenti con questi nomi nell’Italia antica siano effettivamente i discendenti degli Apuani deportati nel 180. A questa obiezione si può rispondere che è vero che Livio parla di Corneliani e di Bebiani; dice, però, che gli Apuani furono deportati nei campi Taurasini e che l’iscrizione funebre di Scipione Barbato permette di localizzare con sufficiente sicurezza nel Sannio; e le iscrizioni più importanti riguardanti i Bebiani sono state trovate proprio nel Sannio. Vi è inoltre la corrispondenza, che non può essere assolutamente casuale, tra i nomi dei due gruppi, Corneliani e Bebiani, ed i “nomina” dei due generali romani Cornelio e Bebio.
Le discussioni sul problema della determinazione geografica di questi due territori incominciarono ai principi del secolo scorso: un eminente psicologo del tempo, Padre Guarini, sostenne di aver identificato con sufficienti indizi il territorio abitato dai Corneliani. Non mi dilungo sulle ricerche, dico solo che le sue conclusioni sono tutt’altro che convincenti; si deve pertanto concludere che l’ubicazione del territorio dei Corneliani e specialmente della loro città, nonostante vari e spesso fantasiose ipotesi, è ancora un vero mistero. Ben diverso è il discorso che si può fare circa i Bebiani. Intanto, esiste in territorio di Macchia di Circello un sito dove i resti di una città di epoca romana imperiale; in questa sono stati scoperti due reperti fondamentali. Il primo, è uno cippo onorario di epoca incerta recante le iscrizioni in cui si notava che un Patrono (di cui manca il nome), essendo per un terremoto crollato l’edificio di un bagno che doveva essere pubblico, lo aveva fatto restaurare a sue spese; per questo l’Ordo et pobulus Ligurum Baebianorum gli aveva tributato quel segno di riconoscenza. Il cippo con le iscrizioni andò successivamente distrutto ma il testo fu conservato e noi lo conosciamo con sicurezza. Nella città di Macchia è stata poi scoperta l’incomparabilmente più importante “Tavola Alimentaria” che reca chiaramente nella sua iscrizione dedicatoria la indicazione della presenza dei Liguri Bebiani in quel luogo. Questa città era ben nota a Giosuè De Agostini, proprietario dei terreni in cui giacevano gli avanzi di essa; egli ne tentò per primo a sue spese lo scavo; fu lui che scoprì ed interpretò per primo la “Tavola Alimentaria”; fu lui a parlare in un suo intervento dinanzi al Consiglio Comunale di Circello nel 1876 di “avanzi di uno pubblico bagno e di una basilica del foro, della necropoli della città dei ‘Liguri Bebiani’ e, in un documento da lui compilato, a far riferimento a “maestosi avanzi monumentali della città di Liguri Bebiani..: lapidi inscritte, bassorilievi, pavimenti a mosaico, ornati architettonici ed altri sparsi…”.
Purtroppo ora di quanto elenca il De Agostini c’è poco da vedere, oltre quello che è stato posto in luce da scavi effettuati nel 1982 e nel 1983, vari oggetti raccolti in un piccolo deposito della Masseria di Tocco di Circello, non aperto peraltro al pubblico, nonché alcuni reperti con le iscrizioni posti davanti all’ingresso degli scavi. Molto è andato disperso per l’incuria, il vandalismo, le private sottrazioni; ma resta comunque fermo che nel perimetro della città furono scoperte le sue fondamentali iscrizioni che attestano senza ombra di dubbio che lì abitavano i Liguri Bebiani. È naturale che i deportati Apuani, in tempi successivi al loro arrivo nelle contrade sannitiche, siano usciti dalle sedi originarie a loro assegnate e si siano stanziati nel territorio circostante ad esse; in questo sono state effettuate recentemente quattro stagioni di ricerche di campo che hanno avuto come risultato scoperte tali da poter ipotizzare ragionevolmente che il territorio abitato dai Liguri Bebiani fosse in età imperiale abbastanza vasto. Al di là delle discussioni sui siti di stanziamento dei liguri Apuani dopo la loro deportazione, ci si può chiedere quali furono le conseguenze sociali ed economiche di questa forzata migrazione e cioè in quali misure Liguri e i Sanniti abbiano interagito gli uni con gli altri modificando le loro rispettive culture almeno nei limitati spazi in cui vennero in contatto e a confronto. Si deve considerare che agli inizi del II secolo a.C. così i Liguri abitanti delle montagne apuane come i Sanniti stanziati nelle terre dell’alto Sannio avevano in comune alcune caratteristiche di vita: ambedue eredi di una povertà atavica derivante dalle scarse risorse dei territori da essi abitati, traevano il loro sostentamento dalle medesime attività, cioè dalla pastorizia e dalla coltivazione di limitate zone di terreno produttivo.
La realtà ambientale che si presentò ai Liguri deportati non dovette essere molto diversa da quella che avevano lasciata: un territorio accidentato, con inverni rigidi, poco adatto alle culture intensive e redditizie; fiumi piccoli, stagionali e pertanto non adatti ad essere usati come vie di comunicazione; mancanza di un mercato agricolo che potesse avere un peso nell’economia locale; grande importanza invece della pastorizia con il connesso fenomeno della transumanza. Una società povera, dunque, molto più di quanto comportassero le distanze reali, dalle condizioni delle popolazioni stanziate nelle fertili plaghe irrigate dal Calore e dal Volturno o nelle zone costiere della Campania. La distribuzione ai Liguri Apuani di una parte dell’agro Taurasino non servì certo a modificare lo stato economico delle popolazioni indigene né modificò quello dei deportati. Si deve pensare che i Liguri continuarono le loro attività di pastori e di piccoli agricoltori nel Sannio e ciò rese più facile la loro integrazione con le popolazioni indigene, alle quali finirono per assimilarsi. Ci fu chi, a prova di ciò, vide nella tipologia dei Liguri considerati e classificati in base a criteri antropologici, psicologici, attitudinali e sulla scorta d’informazioni fornite da autori greci e latini, molte somiglianze con quelle popolazioni che ancora oggi abitano alcune zone dell’Alto Sannio. Abbiamo qualche notizia sulle istituzioni e sull’assetto amministrativo di Liguri Bebiani, almeno degli abitanti della città di Macchia che chiamiamo comunemente Bebiano, sulla scorta di Frontino. Anche la lettura di alcuni iscrizioni ci permette di affermare che la città nel I secolo a.C. era un “municipium” con le leggi, magistrati, giurisdizione propri: la popolazione era divisa in Curie e la governavano i “Decuriones” (una specie di consiglio municipale) ed un collegio di “Quattuorviri Quinquennales” che erano magistrati nominati dalla città ogni cinque anni per curare il censimento e per applicare le direttive dell’”Ordo Decurionum“; altri magistrati erano “Quattuorviri jure dicundo“, che amministravano la giustizia, gli “Aediles” che presiedevano alle costruzioni, ai mercati, ai giochi pubblici, alla nettezza urbana; i “Quaestores” che erano i responsabili della amministrazione finanziaria; il culto religioso era nelle mani dei “Pontifices“; sappiamo che erano attivi anche gli “Augustales” collegio sacerdotale organizzato per il culto dell’imperatore.
In una iscrizione di età imperiale sono nominati un “Collegium Dendroforum” (di “portatori di alberi” forse di carpentieri) e un “Collegium Fabrum” (di costruttori) che ci fanno pensare ad organizzazioni sociali che raggruppavano coloro che esercitavano la medesima attività. Poteva esserci una Assemblea popolare che eleggeva i magistrati, anche se di un tale istituto non abbiamo testimonianza per quel che riguarda Bebiano; ma essenzialmente il sistema di governo della città era oligarchico, secondo la credibile ipotesi del Patterson. Ritorna poi più volte nelle iscrizioni la figura del “Patronus”. L’istituto del Patronus era molto diffuso in età imperiale; il titolo veniva attribuito ad un personaggio (verosimilmente cittadino romano) che aveva il compito di tutelare un ente con l’onere di difenderne gli interessi nei confronti del potere centrale; non era, quindi, solo un titolo onorifico come ragionevolmente ipotizza il Patterson; d’altra parte, trattandosi di un personaggio importante, era verosimile che aiutasse la città non solo politicamente ma anche finanziariamente e ricevesse per questo il pubblico tributo di ringraziamento (“obsequium“) da parte della città. Nel 42 a.C., e successivamente, si verificarono avvenimenti che ebbero conseguenze pesantissime sul territorio dei Liguri Bebiani. In quell’anno 42 infatti Munanzio Planco, applicando una “lex triumviralis” dedusse una colonia di veterani nel territorio beneventano; alcuni anni dopo Ottaviano dedusse nello stesso territorio nuovi coloni; siccome l’ager beneventanus (“fines beneventanorum”) non era sufficiente per soddisfare le esigenze di assegnazione dei fondi, fu confiscato anche quello di Liguri Bebiani (“Ligustinum“) e dei Caudini (“Caudinum“); fu fatta cioè una operazione che in linguaggio tecnico si chiamava “contributio“. In tal modo si formò un vasto territorio (“Beneventanum”) che incorporò i possedimenti di Liguri e dei Caudini e che fu assegnato ai veterani.
Per quel che riguarda i Bebiani è problema ancora insoluto se il territorio sia stato distribuito in tutto o in parte ai veterani; alcuni studiosi come il Mommsen ed il Veyne sostengono che tutto il territorio venne confiscato con la sola eccezione del centro urbano, come sicuramente avvenne a Caudium; altri come il Keffie e il Patterson affermano, sulla base di argomentazioni storiche e di testimonianze epigrafiche, che, sebbene parte del territorio ligure fosse stato preso dalla nuova colonia di Benevento, ciò nonostante la città dei Liguri Bebiani conservò una parte consistente del territorio da essa recentemente controllato. Comunque, una cosa certa: il trasferimento di una gran massa di veterani nel territorio confiscato portò una vera e propria romanizzazione di esso. È ben vero che Ottaviano ed i suoi successori, al fine di ottenere l’integrazione delle due comunità eterogenee, cioè i nuovi arrivati ed i vecchi abitanti dei luoghi, fecero costruire edifici, acquedotti, templi che diedero verosimilmente un aspetto cittadino all’antico insediamento dei Bebiani e cercarono pure di realizzare una vera e propria fusione dei due gruppi; tanto che spesso i veterani o loro discendenti ebbero cariche pubbliche o comunque importanti incarichi nella comunità.
Questo ci spiega anche il fatto che tutti i reperti archeologici più importanti e più significativi riguardanti i Bebiani sono già di età imperiale. Bisognerebbe andare a ricercare negli strati sottostanti all’insediamento di quell’età per trovare eventualmente testimonianze della vecchia città di epoca repubblicana o addirittura del pagus originario; ma questo è ancora nel mondo dei progetti neppure tanto facilmente realizzabili. L’ultima testimonianza importante dell’esistenza dei Liguri Bebiani c’è data dalla “Tavola Alimentaria” che fu redatta nell’anno 101 a.C.. Le altre posteriori non sono davvero rilevanti nella determinazione di fatti riguardanti la storia dei Bebiani: si tratta d’iscrizioni dedicatorie a Settimio Severo ed a Giordano III, del III secolo d.C.. Una pietra miliare fu posta nel territorio dei Liguri Bebiani tra il III secolo e il IV secolo d.C. da imperatori Diocleziano e Massiminiano; dopo di ciò il buio. Che avvenne dei Bebiani? Così ne riassume la sorte, nel secolo scorso, Giosuè De Agostini, che fu il loro primo storico moderno: “Come questi antichi popoli scomparissero e quando; quali vicende in tanta estensione di campi semideserti, incolti, boscosi, per più centinaia di anni abbandonati, non è molto facile indagare nell’oscurità di quattordici secoli circa trascorsi… E vi è stato periodo lunghissimo in cui gli abitatori o distrutti o trasmigrati lasciarono quell’immensa località deserta. Ai Saraceni son da imputare i primi saccheggi e devastamenti. Le formidabili loro orde invasero quelle contrade uccidendone gli abitanti, fugandone i superstiti……. proprio in Bebiano c’è una contrada nominata “Camposaraceno” ed altri siti contigui tuttavia diconsi “Li Saraceni” dove compirono al certo le più eclatanti crudeltà e saccheggi e dove si trattennero… forse è a congetturare che Alzeco e i suoi Bulgari offertisi a Grimoaldo e da lui rimandati a Romualdo suo figlio, duca di Benevento, collocati da lui a Boiano, Sepino e adiacenze, si insediassero anche in Bebiano… In conclusione di codeste vicende, se oggi si addimandasse: di queste contrade gli abitanti di chi i veri oriundi: se dai Sanniti, dai Liguri o dai Bulgari potrebbe rispondersi che appena in qualche città o alpestre dimora sopravvissero in minima parte a tante distruzioni sia di fenomeni terrestri o atmosferici sia di umani conflitti qualche meschino avanzo; ma non dei Sanniti, non dei Liguri, non dei Romani; tutt’al più i superstiti alle frequenti guerre, terremoti, pestilenze, epidemie, un residuale non caratteristico di alcuna razza che passeggiano sul suolo che per antonomasia si appella Sannio a vanto della tradizionale e mal conservata antichità”.
Ci troviamo, dunque, davanti all’esempio tipico di una comunità etnica che è certamente esistita, ha operato per secoli in un territorio abbastanza ben delimitato, ha lasciato testimonianze della sua esistenza, della sua attività, ma poi è scomparsa, travolta dall’onda della storia; poche tracce ha lasciato nella memoria dei posteri, che si riscontrano soprattutto in confuse rimembranze e in qualche toponimo e nei relitti della sua esistenza solo recentemente rintracciatati e decifrati dalle ricerche degli archeologi. Tra essi importantissima ed interessantissima la così detta Tavola Alimentaria Bebiana. È indispensabile che, prima di giungere alla conclusione di questo mio discorso, io mi soffermi brevemente su questo che è il documento principe della storia dei Liguri Bebiani; quella che ha dato dopo la distruzione del cippo del Patrono, la prova definitiva dell’esistenza di questa popolazione organizzata in una comunità autonoma ancora dopo quasi tre secoli dall’arrivo dei liguri nel Sannio. Ricordiamo essa fu rinvenuta nel 1831 in un fondo di Macchia di Circello di proprietà di Giovanni De Agostini da alcuni contadini che dissodavano un vecchio canneto accanto alla muraglia divenuta del pubblico bagno romano. È una tavola di bronzo della dimensione di circa m. 1,30 di altezza e di m. 0,80 di larghezza, spezzata longitudinalmente al lato sinistro e mancante di un pezzo triangolare nel mezzo del bordo superiore; reca una iscrizione mutila in caratteri romani con una intestazione in caratteri più grandi che è una dedicatoria a Traiano da parte dei Liguri Bebiani. È una delle due Tavole Alimentarie ancora oggi conservate (l’altra era stata scoperta a Veleia, nel 1747). L’iscrizione è stata redatta nell’anno 101 d.C. in essa infatti sono indicati chiaramente i due consoli dell’anno. Vi sono annotati elenchi di agricoltori del luogo che hanno beneficiato di una certa legge promulgata da Traiano con cui si volevano dare benefici sia agli agricoltori bisognosi di finanziamenti sia alle fanciulle povere che per sposarsi dignitosamente avevano bisogno di una dote.
Questa tavola suscitò un interesse enorme tra gli studiosi del tempo, tanto è vero che vennero ad esaminarla esperti del calibro di Henzen, di Heinrich Brunn e soprattutto Teodoro Mommsen che venne appositamente a Campolattaro dove la tavola era custodita nella galleria del palazzo abitato dai miei avi, e che ancora io abito. L’importanza di questo documento è senza dubbio grandissima. In primo luogo la Tavola Bebiana ci premette di affermare sicuramente e definitivamente che una popolazione chiamata “Liguri Bebiani” era stanziata nel territorio in cui essa fu scoperta; inoltre dà prova della esistenza in una loro città del Sannio beneventano, smentendo ogni altra ipotesi più o meno fantasiosa. Essa fornisce, ancora, preziose notizie sulle popolazioni della zona e sui “pagi” che comprendono i fondi ipotecati e in generale sullo stato delle proprietà fondiarie e sulla società rurale del tempo; contribuisce alla comprensione del metodo catastale romano; può essere considerato come un documento sia pur rudimentale di tecnica bancaria. Non sembra quindi esagerato l’appellativo di “insigne monumento” ad essa attribuito dal Garrucci e dal Henzen. Io sono stato sempre attratto da questa vicenda dei Liguri nel Sannio soprattutto per un fatto tutt’altro che irrilevante: lo studioso e lo storico dei Liguri Apuani nel Sannio, lo scopritore della tavola Bebiana ed il primo interprete della sua iscrizione, colui che avviò per primo scavi archeologici sistematici nel territorio di Liguri Bebiani ordinando in dotte memorie il risultato ottenuto, fu il mio bisnonno, Giosuè De Agostini, archeologo ed epigrafista valente tanto da meritare l’ambitissimo titolo di socio onorario da parte del celebre ed esclusivo Istituto di Corrispondenza Archeologica, oggi Istituto Archeologico Germanico. Dei Liguri ho sentito raccontare nella tradizione familiare fin dalla mia infanzia: essi sono stati quasi attorno alla mia culla; nell’archivio di casa mia ho letto molti documenti che mi hanno permesso di pubblicare il libro “I Liguri nel Sannio”. Peraltro, al di là di tutto questo la vicenda dei Liguri Apuani nel Sannio mi ha suggerito una riflessione di carattere generale che annoto a mo’ di conclusione.
Questo episodio di sradicamento di un popolo deportato nell’ambito di un altro popolo, questo trapianto etnico vero e proprio, è un esempio, nel suo piccolo e limitato ambito, di quello che i Romani -per vocazione storica, per loro destino- hanno realizzato in ben altre proporzioni e con ben altri metodi, cioè la fusione delle culture dei vari popoli, la creazione di una grande cultura comune di cui abbiamo insigni esempi in tutta la storia della nostra civiltà. Cosa hanno dato i Liguri a noi Sanniti? Noi li ricordiamo nella toponomastica, negli studi di archeologi e di epigrafisti; ma li ricordiamo e li testimoniamo ancora nelle virtù che, mi sia lecito dirlo, pensiamo che i Liguri abbiano trasmesso a quelle popolazioni con le quali si sono integrati: la laboriosità, la frugalità, il valore guerriero, per cui Diodoro Siculo scrisse: “Vale più un esile Ligure di un Gallo fortissimo”; quelle virtù che facevano dire a Tito Livio, che pure era pregiudizialmente ostile ai nemici eterni di Roma “non esiste nessun popolo come il ligure che possa mettere alla prova ed affinare e far risplendere la virtù dei Romani”.