Gioiello dell’arte dell’ultimo ‘900 beneventano è l’Hortus Conclusus. Nome originale ed aristocratico per indicare il giardino posto in Corte San Domenico all’interno del convento domenicano in Piazza Guerrazzi, oggi finemente restaurato nelle strutture e negli affreschi. Il giardino raccoglie, come in un rivisitato contenitore museale, opere originali del pittore-scultore Mimmo Paladino, genuino figlio del Sannio e protagonista della “Transavanguardia”, corrente pittorica di fine ‘900 così definita dal critico d’arte Achille Bonito Oliva. In questo spazio, un magico silenzio proietta il visitatore in una dimensione di antico equilibrio di vita, in cui sembrano risuonare le cantilenanti orazioni vespertine dei monaci domenicani, antichi abitatori del luogo.
Tra tanti simulacri scultorei di ambiguo significato, in armonia col misticismo del luogo, spicca il cavallo dalla testa dorata. Posto come sentinella sul muro di cinta dell’Hortus Conclusus, esso, con la maschera di memoria achea, si staglia agile nello spazio, quasi a cavalcare la storia secolare della città. L’animale dalle fragili zampe, assorbito nell’orizzonte collinare e sospeso tra i discinti tetti della città vecchia, domina l’intero spazio verde dell’Hortus, dove l’ulivo ed il fico creano un’atmosfera di antica mediterraneità. Una messe di sculture e di segni, sparsi su pietre e selciato, hanno un originale quanto affascinante significato. La pavimentazione, fatta di pietre, di mattoni, di tufo, di basoli di lava vesuviana, i segni disseminati su muri e lastre, assumono significazioni simboliche e memoriali. Tutto il luogo diventa una provocazione all’inconscio primordiale dell’uomo moderno.
Una figura di uomo, con corro asimmetrico e irregolare nella sua anatomia, contiene sulle braccia, infinitamente lunghe, teschi di storia. La scultura, statica nella sua porzione di sfida al tempo nei riguardi dell’uomo e del suo divenire, fa sgorgare dalle mani acqua perenne. Ad una macchia rossa sul cuore fa da contrappunto, sul lato destro, una croce d’oro. Una campana, avvolta da racemi incrociati, simboleggia, forse, antichi raduni di genti italiche. Di enigmatica interpretazione è una nera figura umana distesa. Chiaro, invece, nel suo significato, sembra essere l’elemento totemico a due teste contrapposte, di cui una caprina, capovolta. Questi simboli evocano dall’inconscio primordiale, riti notturni in cui maghi, streghe e diavoli si mescolavano in malefiche alleanze. La dislocazione delle sculture, l’inquietante atmosfera e l’ambiguità dei segni si presentano ad interpretazioni diverse e ripropongono, in una moderna rilettura, il complesso e contraddittorio itinerario della storia di Benevento.
Sanniticità, romanità, longobardia e potere temporale della chiesa sembrano confrontarsi e convivere in questo luogo in una storta di circolarità in cui gli archetipi archeologici della città si sposano in armonica contrapposizione. L’Hortus Conclusus, “Puzzle della storia sannita“, è la rappresentazione degli elementi costitutivi la specificità dell’antica e complessa cultura del Sannio e di Benevento, in cui elementi scabri di significazione costituiscono i segni paradigmatici per una rilettura delle radici della comunità locale. Il nome del luogo, dal sapore aristocraticamente letterario, ricorda il titolo della prima sezione del “Poema paradisiaco” del pescarese Gabriele d’Annunzio, che intitolava una sua poesia (la prima pubblicata su Il Mattino di Napoli nel 1893) proprio con il titolo “Hortus Conclusus“. Nel testo poetico viene sviluppato il tema del luogo misterioso e inaccessibile: “Giardini chiusi, appena intraveduti, / o contemplati a lungo pe’ cancelli / che mai nessuna mano al viandante / smarrito aprì come in sogno?”, dove sono custoditi “spiriti amanti dietro l’ombra dei beni perduti” e dove “più bianche che nel silenzio intente le statue guardavano la profonda pace e sognavano…”. Nello spazio dell’Hortus beneventano forse è rappresentato il sogno di un rifugio al male di vivere contemporaneo. L’Hortus paladiniano sembra proporre un’atmosfera criptica dove l’animo dell’osservatore può rifugiarsi isolandosi dal resto del mondo. Oggi l’espressione Hortus Conclusus è usata sempre più spesso per indicare un ristretto campo di lavoro intellettuale, di cui una persona è geloso specialista. L’Hortus come “luogo eletto” accessibile solo a spiriti intellettualmente raffinati e gelosi della loro demiurgica specificità creativa. Fonte pura di arte e di desiderio. Come la bella Sulamita del “Cantico dei Cantici” vagheggiata come Hortus Conclusus. Irraggiungibile e chiusa all’irrefrenabile desiderio dell’innamorato.