La costruzione della Chiesa risale al periodo arechiano, precisamente al 758, pochi mesi dopo l’unzione di Arechi II a Principe di Benevento. S. Sofia fu considerata, fin da allora, Sacrario della Stirpe, centro morale e religioso della Longobardia meridionale, Santuario Nazionale del Popolo Longobardo, costruito per la redenzione dell’anima del Principe e della sua gente. Il nome avvicina la chiesa di Benevento alla monumentale basilica di Costantinopoli. Entrambi gli edifici infatti sono dedicati alla Santa Sapienza. Nel maggio del 760, sebbene la chiesa non fosse stata ancora ultimata, furono traslate nel tempio le reliquie dei dodici Fratelli Martiri della Puglia. Poco dopo vi furono portati anche i resti dei Santi Quaranta, i quali, in quanto santi guerrieri, furono sommamente venerati dai longobardi beneventani. Era, infatti, costume di quel tempo e dei popoli barbari custodire con grande religiosità le reliquie dei Santi, per essere protetti nelle guerre.
Per la sua costruzione fu reimpiegato parte di materiale asportato da monumenti preesistenti nella città. Ciò si nota, in particolare, da alcuni capitelli d’ordine corinzio, di chiara manifattura classica, utilizzati nel colonnato all’interno di essa. La movimentata struttura esterna della chiesa richiama la flessuosità e l’impianto di una tenda militare da campo longobardo. Nel 768 fu completata anche la decorazione pittorica. Per l’occasione la chiesa accolse i resti di S. Mercurio. Il tempio si trovava vicino al palazzo ducale, ma di certo al di fuori di esso. È stato accertato che esso non fu cappella palatina. Comunque il sovrano, spesso, spinto dalla sua prepotente religiosità, vi si recava di notte per raccogliersi in preghiera “consuetudinem in oratione pernoctandi” (Leone Ostiense). L’abbazia, che era sorta quale monastero per suore dell’Ordine Benedettino, di cui fu prima badessa Gariperga sorella di Arechi II, molto legata alla cognata Adelberga, intorno al 938 divenne monastero maschile e si arricchì del chiostro. Lasciti e donazioni fecero della chiesa e del monastero una delle abbazie più potenti dell’Italia meridionale.
La vita nel complesso monastico non fu sempre all’altezza della sua fama. In una testimonianza della Sacra Visita del 1531 si legge, infatti, che essa fu trovata in uno stato di pauroso abbandono: “ruinatam, destructam et plenam calce, monditiis et erbis“. Al degrado si aggiunsero le spoliazioni. Alcuni studiosi sostengono che diversi capitelli della cripta del Duomo di S. Agata dei Goti siano provenienti, appunto, dal chiostro di S. Sofia, che era ormai “minantem ruinam“.
La pianta della chiesa si presenta di forma metà stellare e metà circolare: sei colonne centrali, collegate fra di loro con archi, costituiscono un esagono, I pilastri esterni formano un anello che racchiude l’esagono centrale. La disposizione delle colonne crea una prospettiva di rara suggestione che sembra dilatare gli spazi con inusitati giochi di ombre. All’ingresso, prima del terremoto del 1688, vi era un portico, poggiante su quattro colonne. Nella lunetta sovrastante, un bel bassorilievo su mosaico, raffigura al centro Cristo in trono, avente alla destra la Vergine ed alla sinistra S. Mercurio, le cui reliquie riposano sotto l’altare della Cappella di destra. In ginocchio, accanto a lui, il principe Arechi II, riconoscibile dalla corona sulla testa.
Nell’abside di destra si possono ammirare l’Annunciazione alla Vergine, evidenziata nella figura dell’Angelo, e la Visitazione a Maria con l’abbraccio di S. Elisabetta. Le scene, comunque databili tra il 760 e i primi decenni del secolo IX (826 – 842), coeve al ciclo pittorico di S. Vincenzo al Volturno, si riferiscono ad una puntuale illustrazione del primo capitolo del Vangelo secondo S. Luca. Il ritmo narrativo e la cultura figurativa richiamano uno stretto rapporto con lo stile arabo: infatti è stato ormai accertato che il Ducato di Benevento avesse frequenti e fruttuosi contatti con la Siria e con la Palestina. Sofia, arricchita da un meraviglioso chiostro, fu punto di incontro di meditazioni filosofiche e religiose. Raccolti in silenziosa preghiera, principi e dignitari, accomunati a laboriosi e oranti monaci benedettini, trovarono negli spazi claustrali sofiani l’atmosfera serena di raccoglimento per l’elaborazione di progetti politici. Nacque qui in quell’epoca, per espandersi poi in tutto il mondo di allora, la lettera beneventana o scrittura longobarda. In questo periodo i centri Benedettini divennero il cuore di un’operosa diffusione culturale, grazie agli scriptoria, simboli di cultura attiva e baluardi dello spirito contro la furia dei nuovi barbari che, in un crescendo di rapine e di distruzione, seminavano desolazione e morte. Negli scriptoria e nei chiostri, conventuali avvolti nella loro discrezione di comportamenti, difesi solo dalla umiltà dei loro sai, perpetuavano, tra orazioni e digiuni, preziosi testi miniati, duraturi testamenti dello spirito creativo dell’uomo di ogni tempo.